domenica 31 agosto 2014

Affari inconfessabili


Quel giorno George Bush si lasciò andare all’emozione e le lacrime gli solcarono le guance. In visita al Museo Yad Vashem di Gerusalemme, con la kippah ebraica in testa, aveva appena domandato al proprio Segretario di Stato perché i bombardieri alleati non avessero attaccato Auschwitz durante la Seconda guerra mondiale. L’11 gennaio 2008 il Presidente degli Stati Uniti concludeva la sua visita di Stato in Israele con un pellegrinaggio al Children’s Memorial della Shoah. Ascoltando una poesia di Hannah Szenes (paracadutata in Iugoslavia per andare in soccorso degli ebrei ungheresi e fucilata dai nazisti il 7 novembre 1944), non era riuscito a trattenere la commozione. 

Condoleeza Rice, alla quale aveva riproposto uno dei tanti enigmi ancora irrisolti nella storia dell’Olocausto, gli aveva tuttavia risposto in un modo che forse non avrebbe soddisfatto nemmeno la più sprovveduta delle sue matricole all’Università di Stanford. Lo aveva fatto con freddezza, pur senza tergiversare troppo sulla cinica realpolitik che aveva informato la strategia degli Alleati durante il conflitto con l’Asse, man mano che i destini dello scontro parevano segnati: «Gli americani in quegli anni non pensavano che ciò sarebbe servito a fermare la macchina di sterminio», si limitò a dire lei.


Ma ciò che la stampa si rifiutò allora di approfondire, così come accade ancora oggi pur con un nuovo inquilino insediato alla Casa Bianca, è che il quarantatreesimo Presidente statunitense avrebbe trovato molto più facilmente in famiglia i motivi della sostanziale indifferenza dell’amministrazione USA (malgrado l’ordine imperativo di Franklin Delano Roosevelt del 22 gennaio 1944) per la pervicacia con cui il Nazismo perseguì la cosiddetta «Soluzione Finale». Documenti resi pubblici nel settembre 2004 dal quotidiano britannico «The Guardian» e dall’emittente «FOX News», benché con un paio d’anni di ritardo sulla loro declassificazione, avvenuta a sei decenni esatti di distanza dall’apposizione del segreto di Stato nel 1942. Quelle carte, riprese al momento soltanto da alcuni piccoli siti web di contro-informazione e da una terna di saggi storici sconosciuti ai più, collegano in maniera diretta e inequivocabile la stirpe dei petrolieri texani e le loro attività imprenditoriali all’ascesa di Adolf Hitler in Germania e in particolare ai finanziamenti necessari all’organizzazione e al funzionamento del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi prima e dopo l’ascesa al potere del Führer, avvenuta il 30 gennaio 1933. Le implicazioni con il Terzo Reich della famiglia Bush (un «clan» che fra il 1993 e il 2009 ha dato all’America due presidenti per un totale di tre mandati) sono documentate e inequivocabili, pur senza aver mai avuto un’eco sui media. Cominciò a indagarle Antony Sutton nel libro «Wall Street and the Rise of Hitler» del 1975, integrato tredici anni più tardi dal volume «The Two Faces of George Bush», mentre «George Bush: The Unauthorized Biography» di Webster Tarpley e Anton Chaitkin data al 1992. I maggiori quotidiani statunitensi nonché reti televisive come «ABC», «NBC» e «CNN» hanno ignorato e tuttora snobbano queste informazioni nonostante sia ormai dal 2002 che i documenti sono ufficialmente desecretati e chiunque possa leggerli o studiarli presso la Biblioteca del Congresso a Washington o gli Archivi Nazionali di College Park (Maryland): il primo a scriverne sui giornali è stato però John Buchanan della «The New Hampshire Gazette». Pochi, ben informati osservatori si meravigliano anche del fatto che un cronista d’assalto come Michael Isikoff, storico corrispondente di «Newsweek», si sia rifiutato finora di approfondire la vicenda malgrado gli siano state offerte per due volte notizie in esclusiva. Eppure, dobbiamo proprio a lui, al suo fiuto giornalistico e al ripudio di ogni tipo condizionamento di natura politica, la scoperta dell’affaire Monica Lewinsky, quando Bill Clinton era ancora in carica come Presidente degli Stati Uniti. Meno politicamente corretta fu invece «Newsweek Polska», edizione polacca del rotocalco, che ne riferì nel numero del 5 marzo 2003 con un’inchiesta ad effetto: «Bush Nazi Past».


Ma come è possibile che il Nazismo avesse amici così influenti e i Bush non fossero un caso isolato negli USA? La ragione, più che ideologica, fu pratica: soldi, affari, business. Una volta al potere, infatti, Adolf Hitler aveva annullato unilateralmente i debiti tedeschi conseguenza delle riparazioni belliche dovute ai vincitori della Prima guerra mondiale (l’incredibile somma di sei miliardi e seicento milioni di sterline britanniche) e isolato così finanziariamente il Paese. Un isolamento non assoluto e tutt’altro che impermeabile: senza l’accesso al credito internazionale, Wall Street in primis, il Cancelliere tedesco non sarebbe stato in grado di soddisfare le richieste dell’industria militare e spingere la rinascita della Germania in Europa. E quei crediti arrivarono...

La storia cominciò o, per meglio dire, iniziò ad avere rilevanza pubblica grazie a un articolo del «New York Herald Tribune», pubblicato il 31 luglio 1941. Quel giovedì, un pezzo in copertina richiamava un servizio che sarebbe continuato sulla seconda colonna di pagina 22: «Thyssen Has $3,000,000 Cash in New York Vaults» («Thyssen ha tre milioni di dollari nei forzieri di New York»). Occhiello e testo accompagnavano una fotografia in primo piano del magna- te tedesco Friedrich «Fritz» Thyssen (1873-1951), sul quale il quotidiano si sbilanciava a firma di Jay Racusin. Quest’ultimo, un cronista tutto d’un pezzo che lavorava per lo stesso editore fin dal 1918, all’epoca quarantasettenne, era una garanzia di attendibilità: giornalista investigativo dei più scaltri, abituato a consumare le suole delle scarpe almeno quanto taccuini e matite, nel Primo dopo- guerra era stato l’unico membro del- la stampa a intervistare lo sfuggente banchiere John Pierpont Morgan, ancor oggi un’icona del capitalismo a stelle e strisce. Nel 1940, cioè l’anno precedente il suo scoop sul denaro tedesco nascosto oltre oceano, aveva smascherato una serie di irregolarità e «peccati spionistici» commessi da Gerhardt Alois Westrick, un avvocato che rappresentava alcune aziende statunitensi in Germania e che era stato nominato addetto commerciale dell’Ambasciata del Terzo Reich a Washington. Il misterioso legale ave- va curiosamente preso in affitto una suite di tre stanze al Waldorf-Astoria Hotel di New York, pur vivendo di fatto in una villetta di Scarsdale.

Nel pezzo con cui scosse quella lontana estate il «segugio» scriveva che tre milioni di dollari, probabilmente fondi neri («nest eggs») del Governo o di esponenti nazisti, riconducibili al capitano d’industria e banchiere Thyssen (già finanziatore del fallito putsch di Monaco di Adolf Hitler e del feldmaresciallo in congedo Erich Ludendorff dell’8 e 9 novembre 1923), erano depositati in un istituto di credito di New York, e ne citava il nome: la Union Banking Corporation (UBC), con sede legale e uffici amministrati- vi al numero civico 39 di Broadway. L’articolista ipotizzava anche che una mezza dozzina di corporation di diritto statunitense, attive nel campo dell’import-export e dei trasporti, in particolare marittimi, fossero controllate attraverso l’UBC. Germania e Stati Uniti d’America, nell’estate di sessantanove anni fa, ancora non erano formalmente in guerra (le di- chiarazioni in tal senso del Reich tedesco e del Regno d’Italia sarebbero arrivate soltanto l’11 dicembre 1941, quattro giorni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor), ma la circostanza era comunque motivo di grande imbarazzo negli ambienti politici e diplomatici americani, già da tempo orientati in senso antitedesco.


All’epoca la Banca in questione non fece alcunché per smentire il «Tribune» né l’analoga notizia pubblicata in quegli stessi giorni dal «Washington Post», ma probabilmente reagì adottando un profilo basso per cercare di occultare ancora meglio i pro- pri delicati e invisibili affari. Ci riuscì molto bene, perché non accadde più nulla sino al 20 ottobre 1942, dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità fra USA e Germania, durante i quali la Union Banking Corporation continuò ad operare come un normale istituto di credito, vendendo ed acquistando per sé e in conto terzi oro, acciaio, carbone e addirittura Buoni del Tesoro. Questo stato di cose si protrasse finché il Congresso degli Stati Uniti non decise di sequestrare la Banca e le sue azioni, riservandosi di liqui- darla a guerra finita. Il Vesting Order number 248, firmato dal funzionario Leo T. Crowley nella sua qualità di US Alien Property Custodian, ossia custode delle proprietà straniere negli USA, derivava infatti dall’applicazione al caso in questione del Trading with the Enemy Act, la legge federale approvata il 6 ottobre 1917, sul finire della Grande Guerra, al fine di limita- re gli scambi commerciali con Paesi ostili; dal 20 ottobre 1933 era peraltro vigente un emendamento, voluto proprio durante la presidenza Roosevelt, per estendere l’«Act» in parola ai trasferimenti di oro e di pietre preziose, il ché isolava ancora di più i nemici degli States sul piano finanziario. Curiosamente, l’ufficio newyorchese dello US Alien Property Custodian era a pochi isolati dal quartier generale UBC: 120 Broadway.

Ma che cosa collegava in maniera così diretta la famiglia Bush al movimento e all’investimento di capitali nazisti attraverso l’Atlantico? Innanzitutto, la ripartizione del pacchetto azionario (quattromila quote) e le cariche sociali della Union Banking Corporation, che erano così suddivise: 3.991 azioni del valore unitario di 125 dollari appartenevano a Edmund Roland «Bunny» Harriman, «chairman» della UBC, fratello minore del politico e diplomatico William Averell, già Governatore dello Stato di New York (entrambi figli del magnate americano delle ferrovie Edward Henry Harriman); quattro quote erano di Cornelis Lievense, olandese naturalizzato statunitense, presidente della società; un’azione ciascuna di Harold Pennington, che della UBC era anche tesoriere, Ray Morris, Hendrik Jozef Kouwenhoven, Johann Groeninger e Prescott Sheldon Bush

Benché titolare di una sola quota nominale della Banca, il nonno del penultimo Presidente degli Stati Uniti e padre del predecessore di Bill Clinton era di fatto l’amministratore delegato dell’istituto, il «vero banchiere», tanto più che, lavorando realmente nella capitale economica d’America, la sua firma appare in calce a numerosi atti o procure di cui ebbe la piena responsabilità sino al giorno della confisca governativa. Per uno dei tipici scherzi del destino che talvolta la storia pro- pone, negli stessi giorni in cui alcune sue proprietà venivano sequestrate in America, William Averell Harriman si trovava in Gran Bretagna come inviato di Roosevelt per discutere della guerra con il feldmaresciallo sudafricano Jan Smuts.

Nato il 15 maggio 1895 a Columbus, in Ohio, da Samuel Bush e Flora Sheldon, Prescott non aveva avuto difficoltà a farsi strada nella high society americana dell’epoca attraverso un’abile politica matrimoniale, talmente ponderata che non avrebbe sfigurato nell’Italia rinascimentale: il 6 agosto 1921 a Kennebunkport, nel Maine, aveva infatti sposato Dorothy, erede del ricco industriale George Herbert Walker, con la quale non avrebbe generato soltanto cinque figli, ma anche grandi affari tra i due «clan» familiari (naturalmente, sempre sotto l’ala protettrice degli Harriman e dei potentissimi Rockefeller). Ritornato dalla Grande Guerra con i galloni di capitano d’artiglieria e dotato di un’affascinante voce da tenore, Bush piaceva subito a tutti. Le nozze con l’ereditiera di Saint Louis e il patrimonio del suocero gli portarono anche la vicepresidenza della W. A. Harriman & Company, società che, con il nome di Brown Brothers Harriman dopo la fusione con la ex Brown Shipley di Londra, sarebbe presto diventata la più grande banca privata d’investimento del mondo: la sede principale, un tempo al 59 di Wall Street, è oggi a Broadway al civico 140. A ciò non avevano potuto non contribuire la frequentazione dell’Università di Yale, nella quale Prescott Bush si era laureato, e l’appartenenza all’organizzazione semisegreta degli «Skull and Bones»: una specie di goliardia conservatrice il cui motto, spiegatogli con allusioni politiche dalla futura ambasciatrice statunitense in Italia, Clare Booth Luce (filosofia evidentemente ancora attuale rispetto ai trascorsi della famiglia texana), grosso modo era: «Ci sono tre cose da ricordare: si prende tutto, non si spiega niente e ci si nasconde sempre».

Nel 1922 Walker e Harriman si erano recati in Germania, incontrando proprio Thyssen, per porre le basi della loro espansione bancaria e per concordare investimenti in settori dell’industria particolarmente critici, soprattutto nell’ottica di un possibile e futuro scontro bellico tra nazioni: nell’occasione frequentarono a più riprese anche l’imprenditore Friedrich Flick (nel 1947 condannato a sette anni di carcere dal Tribunale di Norimberga, di cui appena tre effettivamente scontati), il quale era il deus ex machina della Vereinigte Stahlwerke (United Steel Works Corporation in America), che si scoprì essere il principale fornitore di armamenti bellici e di materie prime alla Wehrmacht: si parla del 50,8 per cento dell’acciaio, il 45,5% di tubi e raccordi, il 41,4% dello stagno, il 38% della lamiera galvanizzata, il 35% degli esplosivi e il 22,1% per cento di cavi e cablaggi. Sicuramente, i Bush avrebbero difficoltà oggigiorno a negare di sapere chi fossero i loro soci in un’importante attività lucrativa nel cuore di Manhattan a metà del Novecento: ciò nonostante, anche le loro biografie ufficiali (ad esempio, «Duty, Honor, Country. The Life and Legacy of Prescott Bush» di Mickey Herskowitz) non ne fanno alcuna menzione. La Union Banking Corporation, sciolta d’ufficio nel 1951, comportò peraltro la liquidazione a loro favore della somma di un milione e mezzo di dollari, fortuna che deve aver giocoforza contribuito al consolidamento dei loro interessi economici nei decenni successivi e alla scalata alla Presidenza degli Stati Uniti, che negli anni Novanta e Duemila avvenne con figlio e nipote di nonno Prescott, che di suo aveva già rappresentato il Connecticut in Senato dal novembre 1952 al gennaio 1963.

Il 1951 fu un anno cruciale anche perché l’8 febbraio a Buenos Aires morì il vero proprietario di quel denaro, Fritz Thyssen, autore due lustri prima dell’autobiografico libro «I paid Hitler», scritto a quattro mani con il giornalista ungherese Imre Révész. Questa circostanza, unitamente ad altri episodi altrimenti davvero «inspiegabili», avalla oggi l’ipotesi di complicità o di un’omertà diffusa proprio in seno a quegli uffici investigativi che avrebbero dovuto vigilare sull’inquinamento dell’economia americana da parte di capitali nemici o quantomeno «sospetti», tanto più che sul finire del 1942 la UBC fu soltanto «congelata» dal Governo federale e nessuna azione penale venne mai intrapresa contro i Bush, gli Harriman o i loro funzionari di banca.

È utile aggiungere che il famoso e potente Allen Dulles, primo Direttore della CIA e incaricato dell’Office of Strategic Services (OSS) a Berlino nel 1947, era riuscito facilmente a farsi nominare consulente legale dello US Alien Property Custodian, l’autorità che aveva operato la confisca della UBC e dei suoi «asset», pur essendo l’avvocato che rappresentava la proprietà occulta della Banca e segnatamente il finanziere angloamericano Kurt von Schröder, che era il fiduciario dei nazisti per le società di Thyssen. L’8 febbraio 1943, sei mesi dopo la confisca dell’Union Banking Corporation da parte degli organi federali, in un documento del Dipartimento del Tesoro emerse che l’FBI aveva chiesto ragguagli sullo stato delle indagini contro i finanzieri newyorchesi, ma l’inchiesta si era evidentemente già instradata in un binario morto. Nei decenni successivi, del resto, emersero altri indizi sulla volontà dell’establishment americano di impedire approfondimenti in quella direzione. Silurato dal presidente John Fitzgerald Kennedy poco dopo il fallito sbarco americano a Cuba della Baia dei Porci nel 1961, Dulles riuscì a indirizzare in Sud America le ricerche sul gerarca nazista Martin Bormann del reporter investigativo Paul Manning, che si stava avvicinando troppo ai veri meccanismi che legavano i potenti degli USA e del Terzo Reich attraverso il sistema bancario internazionale. E si dice che la campagna elettorale di Richard Nixon sia stata sostenuta occultamente sempre dall’ex Direttore della CIA per evitare che il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1968 potesse svelare il collegamento dei Dulles con il denaro tedesco, appreso fin quando era un giovane ufficiale di Marina nel 1942. John Foster, fratello di Allen e futuro Segretario di Stato, aveva poi orchestrato un disinvolto finanziamento alle acciaierie dei Krupp sfruttando il Piano Dawes [proposto dopo la Grande Guerra per sostenere l’economia tedesca nel pagamento dei debiti bellici NdR]. In tempi molto più recenti un altro esponente della stampa, l’olandese Eddy Roever, fu trovato morto a Londra nel 1996 dopo che aveva cercato di parlare con il barone Bruno von Schröder - oltretutto vicino di casa di Margaret Thatcher - per approfondire i congegni di riciclaggio dei soldi dei nazisti prima e dopo la guerra. Ma il suo decesso non sarebbe rimasto un mistero isolato.


A morire di un insolito attacco cardiaco a New York era infatti stato, all’inizio del 1948, anche il misterioso Kouwenhoven (uno dei possessori di una sola azione della banca UBC nonché eminenza grigia dei Thyssen), il quale era spaventato dalle inchieste della polizia olandese sulle proprie attività: accadde due settimane dopo l’incontro con Prescott Bush, verificatosi attorno al Natale del 1947. A raccontarlo in maniera ben argomentata in un saggio storico è John Loftus, avvocato costituzionalista della Florida, presidente onorario del Museo dell’Olocausto di Saint Petersburg e, soprattutto, ex inquirente della Sezione Crimini di Guerra del Dipartimento della Giustizia USA: nel 1994 furono lui e Mark Aarons gli autori del controverso «The Secret War Against the Jews», che procurò loro non pochi grattacapi personali (Il volume, cinquecento pagine di storia e di analisi politica, corredate da altre 120 di riferimenti biografici, dati oggettivi e fonti ufficiali, racconta le attività occulte intraprese dai Paesi occidentali contro gli ebrei e, successivamente al 1948, anche nei riguardi dello Stato di Israele).
Per inquadrare lo scenario, giova però insistere su chi fossero i soci della Union Banking Corporation in quel periodo ormai remoto, alcuni dei quali «di cittadinanza olandese o ungherese», come rammentano gli atti dell’epoca, o altrimenti imparentati con gli stessi Bush. La UBC, fondata il 4 agosto 1924 a New York, era in realtà interamente controllata da una banca straniera, la Bank voor Handel en Scheepvaart di Rotterdam, con sede al 18 di Zuidblaak: curiosamente nella pro- pria relazione ufficiale del 18 agosto 1941 l’investigatore federale Leo T. Crowley scrisse però di «non essere riuscito a raccogliere prove circa la vera titolarità dell’istituto di credito olandese», pur alludendo all’esistenza di «nominees», cioè di prestanome, che dichiaravano di non sapere a chi appartenesse veramente. Erano trascorse poche settimane dagli articoli del «New York Herald Tribune» e del «Washington Post» che avevano messo la pulce nell’orecchio alla Casa Bianca, ma lo US Alien Property Custodian concludeva l’indagine affermando che «se tutti o una parte dei fondi detenuti dalla Union Banking Corporation, o dalle società che essa amministra, siano in qualche modo riconducibili a Fritz Thyssen, l’inchiesta di questo ufficio non è stata in grado di provarlo». Nel suo rapporto del 16 agosto 1941 anche Erwin May, un altro inquirente del Tesoro distaccato alla US Alien Property Custodian, scriveva che «la mia indagine nonha raccolto evidenze circa la reale proprietà della Bank voor Handel en Scheepvaart, ma è altamente probabile che Heinrich Thyssen, fratello di Fritz, possa avere sostanziali interessi nella società».

Dopo aver ricostruito puntualmente i trasferimenti di denaro fra USA Canada ed Europa e aver individuato nell’istituto di credito di Rotterdam la loro sorgente, May era riuscito a risalire alle cariche sociali ricoperte da Hendrik Jozef Kouwenhoven nella ragnatela di attività dei Thyssen. Nel giro di poche decine di giorni Homer Jones, capo della Sezione Investigazioni e Ricerche della US Alien Property Custodian, formulava al Comitato Esecutivo la richiesta di confisca della UBC e di tutti i suoi «asset» nonché il sequestro delle quattromila azioni, da liquidare a favore dello Stato: la sua proposta non trovò però accoglimento presso le autorità preposte. Fra il 1931 e il 1933 la Banca newyorchese acquistò in oro l’equivalente di otto milioni di dollari, tre dei quali rivenduti all’estero; la sua liquidità, fra il 1924 e il 1940, si aggirò sempre attorno ai tre milioni, scendendo a uno soltanto in pochissimi periodi della propria storia; non appena fon- data, l’UBC depositò anche due milioni di dollari in contanti sui conti della Brown Brothers Harriman e si dice che abbia smerciato titoli di Stato tedeschi per cinquanta milioni.

In verità, già i semplici nomi delle persone coinvolte avrebbero potuto alimentare ben più di qualche preoccupazione prima del 1941. Iniziando dagli stranieri, spicca ovviamente quello di Lievense, il funzionario di banca domiciliato a New York in rappresentanza degli interessi tedeschi, al quale si aggiungono Kouwenhoven, emissario di Thyssen nei rapporti con George Walker e gli Harrimann in America, amministratore delegato della Bank voor Handel en Scheepvaart nei Paesi Bassi sotto occupazione nazista, procacciatore d’affari in Germania e responsabile delle finanze estere della United Steel Works Corporation (o Vereinigte Stahlwerke in Germania). E infine Groeninger, anch’egli intermediario per la UBC in Olanda e industriale del Terzo Reich. Proseguendo con gli americani, ci si imbatte in «Bunny» Harriman, azionista di maggioranza e probabilmente «fantoccio» di tutta l’operazione, visto che Bush senior ebbe a definirlo «non molto avvezzo all’attività bancaria», nonché in Harold Pennington, assunto alla Brown Brothers Harriman come semplice impiegato, e Ray Morris, partner d’affari dei capitalisti statunitensi coinvolti, tutti loro perfettamente calati nei panni delle «teste di legno». È bene precisare che la Bank voor Handel en Scheepvaart, fondata nel 1916 da August Thyssen senior, sopravvisse alla Seconda guerra mondiale e nel 1970 confluì nella Nederlandse Credietbank, in concomitanza con un aumento di capitale (i Thyssen ne ricevettero il 25 per cento, mentre la Chase Manhattan Bank ne deteneva il 31). Per la nuova holding venne scelto il nome «Thyssen-Bornemisza» e ancora oggi, se si consulta il motore di ricerca del sito del gruppo ThyssenKrupp A.G. (www. thyssenkrupp.com), sorto nel 1998 in Germania per fusione dei due omonimi colossi della siderurgia, non mancano i riferimenti all’enigmatico istituto di credito olandese: tale banca, dislocata in un Paese formalmente neutrale, pri- ma occupato dai tedeschi e poi controllato dalle truppe alleate, giocò costantemente un ruolo ambiguo fra le due sponde dell’Atlantico e tra gli eserciti in lotta. I banchieri di Rotterdam, proprio perché i Paesi Bassi mantennero uno status di neutralità, riuscirono anche a rientrare in possesso nel Dopoguerra delle loro proprietà. Cioè di quelle dei Thyssen...

August, capostipite della dinastia imprenditoriale della Ruhr, era stato così scottato dalla perdita di ricchezze subita a causa della sconfitta della Germania guglielmina nella Prima guerra mondiale che giurò a se stesso di non voler più essere vittima di ingiustizie o di «capricci» della politica. Aveva così spezzato il patrimonio di famiglia tra due dei quattro figli, Fritz ed Heinrich: il primo mantenne la nazionalità tedesca, il secondo richiese e ottenne le cittadinanze olandese e ungherese, quest’ultima agevolata dal matrimonio con la baronessa magiara Margareta Bornemisza de Kászon. In pubblico il primogenito era disprezzato dal più giovane perché affiliato al Nazismo, cui aveva aderito ufficialmente nel dicembre del 1931, ma in privato collaboravano da perfetti oci in affari e naturalmente da fratelli. L’unico inconveniente fu quello di dover recuperare a guerra finita i certificati di proprietà, sepolti nei forzieri sotterranei e ricoperti di macerie della August Thyssen Bank di Berlino, ma nel maggio 1945 i sovietici autorizzarono le operazioni di un’unità d’intelligence dei Paesi Bassi al comando del principe Bernardo van Lippe-Biesterfeld, poi consorte della regina Giuliana: in teoria lo scopo ufficiale del gruppo era la ricerca dei soli gioielli della corona olandese, per il recupero dei quali godevano di lasciapassare per scavare nel settore orientale dell’ex capitale del Reich.

Un documento ignoto ai più, che «Storia in Rete» ha ricevuto in esclusiva dall’Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis di Amsterdam («Istituto Internazionale di Storia Sociale»), reca in copertina in sequenza i nomi dei tre istituti di credito, per il pubblico e per le autorità totalmente indipendenti l’uno dall’altro, che rappresentarono attraverso l’Olanda la catena di trasmissione di finanziamenti americani ai nazisti, e viceversa: la Bank voor Handel en Scheepvaart, la Union Banking Corporation e la Von der Heydt’s Bank, quest’ultima ribattezzata in seguito August Thyssen Bank. A posteriori si è anche realizzato che fu proprio la Banca di Rotterdam, partner di Bush e soci negli States, a con- segnare il 26 maggio 1930 a Rudolf Hess il denaro (si vocifera di 805.864 marchi) necessario all’acquisto e alla ristrutturazione di Palazzo Barlow a Monaco di Baviera: l’edificio fu trasformato nella Braunes Haus, la «Casa Bruna» che fu il primo quartier generale del Partito Nazista. Su una scrivania del complesso, nello studio di Adolf Hitler, spiccava la fotografia incorniciata del cittadino americano più ammirato dal futuro Cancelliere del Reich: Henry Ford.

Conviene ritornare al misterioso signor Lievense (detentore di quattro quote della UBC, morto il 22 settembre 1949 a Ridgewood, nel New Jersey, ad appena quarantanove anni) e riepilogarne gli incarichi per coglierne l’effettivo ruolo di testa di ponte hitleriana fra i grattacieli della «Grande Mela»: era il rappresentante negli Stati Uniti della Domestic Fuel, società poi sequestrata dal Governo canadese perché sospettata di intelligenza con il nemico, e della Holland-American Trading Corporation, entrambe con sede legale al 39 di Broadway negli uffici della UBC; fu presidente e direttore della Seamless Steel Equipment Corporation; era direttore della Holland American Investment Corporation (le ultime due confiscate dalle autorità statunitensi il 28 ottobre 1942, una settimana dopo la Union Banking Corporation), nonché della August Thyssen Bank di Berlino e della N.V. Handelscompagnie Ruilverkeer di Amsterdam. Il 7 novembre di sessantotto anni fa un analogo sequestro arrestò anche l’attività della Silesian-American Corporation, multinazionale siderurgica tedesco-americana. Complessivamente, in quell’autunno di guerra, furono diciotto i clienti della Brown Brothers Harriman e della UBC le cui proprietà in America vennero «congelate» sino a tutto il 1950 perché in odore di Nazismo, comprese quelle della baronessa Theresia Maria Ida von Schwarzenberg, della cui difesa si incaricò Prescott Bush... Lievense, malgrado gli inquirenti statunitensi avessero dimostrato, registri alla mano, che praticamente tutti i fondi a disposizione della Union Banking Corporation dal 1919 in poi provenivano dalla Bank voor Handel en Scheepvaart (eccetto forse 400 mila dollari conferiti dagli Harriman), negò l’evidenza e cambiò versione più volte. Ma il «sistema» di cui era parte iniziava a scricchiolare: ad esempio, sempre alla fine del fatidico ‘42, l’esecutivo di Ottawa bloccò la Cooperative Catholique des Consommateurs de Combustible, che importava carbone tedesco in Canada in cambio di dollari. Il tutto sempre grazie alla rete di contatti americani della famiglia Bush.

Con il Vesting Order number 126, l’ufficio dello US Alien Property Custodian aveva ordinato in preceden- za (28 agosto 1942) il sequestro della Hamburg-America Line, una compagnia di navigazione di cui è stata provata la complicità nei viaggi di spie tedesche verso gli Stati Uniti prima della Seconda guerra mondiale e che incoraggiava i «veri patrioti americani» a recarsi in Germania per conoscere il Nazismo. Quando le deboli autorità della Repubblica di Weimar decisero nel 1932 di smantellare le prime milizie armate di Adolf Hitler, fu la Hamburg-Amerika-Linie (collegata alla North German Lloyd di Brema) a rendere pubblicamente noto il disegno del Governo tedesco e a farlo letteralmente naufragare. La banca di riferimento degli armatori filonazisti era la finanziaria amburghese M. M. Warburg & Co (quest’ultima, fondata nel 1798 e tuttora esistente, era paradossalmente gestita dai fratelli ebrei Paul e Max Warburg, entrambi tedesco-americani; il primo fu artefice della nascita della Federal Reserve nel 1913, il secondo collaborò con i servizi segreti di Berlino durante la Grande Guerra). Non soltanto: ogni gerarca nazista aveva diritto a viaggiare gratis con le navi passeggeri della compagnia, i cui approdi negli USA erano essenzialmente i porti di Hoboken, nel New Jersey, e New Orleans, in Louisiana. La confisca di quest’importante compagnia marittima precedette di un paio di mesi quella della Union Banking Corporation, che della Hamburg America Line era diventato l’istituto di credito per operare oltre Atlantico, scoperchiando così un vaso di Pandora la cui portata complessiva è percepibile solo oggi.

Anche la Consolidated Silesian Steel Company (CSSC), le cui azioni passarono più volte di mano negli anni Trenta, è ricollegabile a Prescott Bush. Infatti, egli figura pure tra i direttori della Harriman Fifteen Corporation, società titolare di quel terzo di quote dell’azienda non imputabili all’industriale nazista Flick: il «New York Times» aveva segnalato l’ambiguità della proprietà della CSSC già in un articolo del 18 marzo 1934. Responsabile dell’estrazione mineraria in Slesia sul confine tedesco-polacco, la multinazionale occupò buona parte della forza lavoro rinchiusa ad Auschwitz dal 17 giugno 1940 in poi per la produzione di carburante per l’aviazione. E non distante dal campo di concentramento e sterminio più famigerato del mondo sorgeva anche uno stabilimento della I.G. Farben, la maggiore industria chimica dell’epoca, per la manifattura di gomma (detta «Buna») e petrolio sintetico dal carbone, il che segnò l’inizio dell’attività delle SS e l’orrore dell’Olocausto: nel 1944 la fabbrica faceva uso di 83 mila schiavi, in gran parte ebrei, che erano ridistribuiti fra una trentina di aziende. Il pesticida Zyklon B, del quale la I.G. Farben deteneva il brevetto e che veniva usato nelle camere a gas, era fabbricato principalmente dalla DEGESCH (Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung), società posseduta al 42,2 per cento dallo stesso gruppo e che aveva manager della I.G. Farben nel consiglio d’amministrazione. Secondo il libro «The Crime and Punishment of I.G. Farben» di Joseph Borkin, l’azienda strinse accordi segreti con i più alti vertici delle forze armate statunitensi perché non fossero bombar- dati gli stabilimenti in Germania. Altri legami, sempre rigorosamente occulti, con la società petrolifera Standard Oil of New Jersey (oggi Exxon negli USA o Esso in Europa) avevano lo scopo di arrivare alla gestione congiunta degli impianti nei territori del Reich. Patti rispettati, perché alla fine del conflitto 93 fabbriche su cento del sodalizio nazi-americano (ad Auschwitz c’era la Deutsche-Amerikanische Petroleum A.G. o DAPAG) erano intatte...


Il giorno in cui emerse che, attraverso fondi della Standard Oil, veniva retribuito in maniera occulta il capo delle SS, Heinrich Himmler (il tutto grazie a conti cifrati alimentati dalla Schröder Bank di Colonia i cui afflussi si sarebbero interrotti soltanto nel 1944 inoltrato), scoppiò uno scandalo che determinò la caduta e forse il decesso prematuro, il 29 novembre 1942, del presidente William Stamps Farish II (il cui figlio è tuttora l’unico «privato» ad ospitare la regina d’Inghilterra Elisabella II nei suoi viaggi negli Stati Uniti). Il 25 marzo di quello stesso anno il Procuratore Generale Aggiunto Arnold Thurman aveva infatti portato in giudizio da- vanti al Tribunale di Newark il boss della Standard Oil of New Jersey con l’accusa di aver cospirato a favore del Governo tedesco e del nemico. Ipotesi di reato terribili, soprattutto in quei mesi, che ebbero però conseguenze minime per gli imputati: incredibilmente Stamps Farish e la sua azienda, fondata addirittura nel 1870 da John Davison Rockefeller, se la cavarono con risibili multe comprese tra i mille e i 50 mila dollari. E quando nel 1980 George Bush senior (genitore del Presidente che ventotto anni dopo scoppierà in lacrime nel Museo Yad Vashem di Gerusalemme) divenne Vicepresidente degli Stati Uniti, non ebbe dubbi. Assegnò al fidatissimo William Stamps Farish III, futuro ambasciatore americano a Londra tra il 2001 e il 2004 ed erede dell’ex «complice dei nazisti» nel commercio dell’oro nero, la gestione e l’amministrazione di tutti i suoi beni, che vennero appositamente conferiti in un «blind trust».

Non tutto però si può dimenticare o nascondere con l’affidamento fiduciario a un amico di vecchia data. Così la Croce all’Ordine dellAquila Tedesca, onorificenza voluta personalmente da Adolf Hitler nel 1937 per gli «stranieri meritevoli» e attribuita il 7 marzo 1938 a Prescott Bush da Otto Meissner nella sua qualità di Segretario di Stato della Germania, fa bella mostra di sé ed è tuttora conservata negli archivi del Dipartimento della Giustizia a Washington, anche se non proprio accessibile a chiunque. Sì, perché il capostipite dei Bush, insieme con l’aviatore Charles Lindbergh, l’industriale dell’automobile Henry Ford e il fondatore del gigante dell’informatica IBM, Thomas John Watson, fu uno dei rarissimi cittadini americani a esserne insignito da parte del Terzo Reich...

Gabriele Testi
gabrieletesti@hotmail.com

Articolo estrapolato dal n°52 del periodico mensile "Storia in Rete", apparso in edicola l' otto Febbraio 2010. 

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